sábado, 7 de mayo de 2011

Parole da appendere, parole per apprendere

Hanno pubblicato questo mio testo all'interno di un libro dal titolo "Svegliatevi, bambine", prodotto e promosso dall'Associazione "Donne Pensanti". 

Vorrei farvelo leggere: parla di voi e di noi, studenti e docenti e della scuola. 
E naturalmente risente della mia passione per la letteratura in lingua spagnola, in particolare per quel capolavoro di Gabriel García Márquez, "Cien años de soledad". 
Spero che poi vi venga voglia di leggere il libro. E magari di leggere anche il librino di "Donne Pensanti"!





PAROLE DA APPENDERE, PAROLE PER APPRENDERE
di Chiara Stanghellini

Vi ricordate cosa succede a Macondo, il paese che Gabriel García Márquez racconta in Cent’anni di solitudine? La gente soffre di una malattia progressiva e inarrestabile e comincia a scordarsi le parole.
Per non rischiare di dimenticare i nomi delle cose, Aureliano Buendía, il protagonista, inventa un sistema: scrive su un foglio il nome dell’oggetto, che poi applica con la colla all’oggetto stesso.
Alla parete viene fissato un pezzo di carta con scritto “parete”, alla sedia un altro fogliettino con indicato “sedia” e anche agli animali viene appeso un cartello identificativo: “mucca”, “maiale”, “cavallo”. Tutto il villaggio mette in pratica questo metodo, ma l’oblio a Macondo non si ferma, anzi si espande.
Gli abitanti, guidati da Aureliano e da suo padre, José Arcadio, per non dimenticare a cosa servono gli oggetti e gli animali, devono inventarsi un nuovo stratagemma e scrivono altri cartelli: “Questa è la mucca e bisogna mungerla tutti i giorni per ottenere il latte, che poi si bolle e si può aggiungere al caffè per fare il caffelatte.”
Per non scordare il significato dei sentimenti inventano sistemi complicati: mazzi di carte per leggere il passato invece che il futuro e strumenti basati su esercizi per la memoria e per ripetere tutte le conoscenze. Infine, come ultimo baluardo di prevenzione dell’oblio, viene posta all’entrata del paese un’insegna con la scritta “Macondo” e un’altra nella strada principale con la scritta: “Dio c’è”.
Un giorno arriva a Macondo, proveniente da quella parte del mondo dove la gente ancora era in grado di ricordare, uno zingaro di nome Melquíades, uomo decrepito e dall’aspetto strano, con una valigia panciuta legata da corde e un carretto di stracci scuri.
Estrae dalla sua vecchia valigia una pozione magica che offre a José Arcadio e a tutti gli abitanti di Macondo, restituendo loro la memoria e il ricordo delle parole perdute.

Questa storia magica risuona dentro perchè è qualcosa che conosciamo bene e che ci riguarda: siamo noi Macondo, siamo noi il padre e il figlio della famiglia Buendía, siamo noi l’anziano zingaro, noi che abbiamo perso la memoria e perso le parole, noi che ci sentiamo per questo confusi e dispiaciuti.
Ma l’antidoto all’oblio e la medicina per riconquistare il senso delle nostre parole sono a portata di mano: c’è ancora chi scrive fogliettini, chi inventa quotidianamente macchine per la memoria, chi, creando strategie per la ripetizione delle conoscenze, è capace di  offrire la magica medicina.
Dall’eroico maestro di prima elementare, che su lavagne polverose di gesso e fogli di abecedario porge l’universo delle parole al piccolo cittadino; al professore che regala a timidi o sfrontati adolescenti tutte le parole della letteratura affinchè ne rimanga ricordo, esempio e valore; all’insegnante di lingua straniera che magicamente svela a una platea impaurita ma curiosa il mistero di parole aliene e nuovi suoni; a ogni insegnante, che con fogli o computer, in un’aula o in palestra, negli ambiti scientifici o umanistici, con sistemi moderni e, sempre, con antica sapienza, spiega e dispiega oggetti, azioni e sentimenti, restituendo a una popolazione smarrita la parole per capire, per divertirsi, per comunicare, per creare.
Gli abitanti giovani della Macondo nostrana non amano soffermarsi su questi eroi fuori moda ne’ desiderano riflettere sulla banalità e sull’omologazione imperante che li avvolge, aiutati in questo da pessimi amministratori della cosa pubblica che hanno dimenticato il valore dell’esempio.

Ma poiché, come a Macondo, nella nostra realtà la magia è di casa, possiamo immaginare un finale ottimista per i nostri protagonisti.
Gli abitanti giovani - li chiameremo per comodità scolari - vivaci, pieni di idee e fermenti, non si fanno scoraggiare poiché posseggono la predisposizione al bene e la capacità di autoguarigione dalla malattia dell’oblio. Trovano finalmente il coraggio di pensare autonomamente e di riappropriarsi delle parole dimenticate.
I membri più anziani - li chiameremo maestri e professori - solo apparentemente stanchi e provati,  instancabili coltivatori diretti di sorprese, tenacia e memoria, fiduciosi delle qualità degli abitanti più giovani, si fanno trovare preparati per la quotidiana distribuzione dei fogliettini, dei pensieri e delle parole nuove. 

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